L’assenzio: "la fata verde" sta vivendo un periodo di rinascita, e le persone stanno iniziando ad apprezzarlo per ciò che è: uno spirito affascinante, complesso e pieno di mistero. Ma gli artisti hanno da tempo compreso le sue qualità uniche.
Per capire perché l’assenzio fu la bevanda preferita dei bohémien parigini, bisogna tornare indietro nella Parigi tra il 1870 e il 1914 — la cosiddetta Belle Époque.
In quegli anni, la città era un laboratorio di creatività e disincanto: la fotografia, l’impressionismo, la nascita dei caffè-concerto e delle sale di Montmartre. Gli artisti cercavano nuovi linguaggi, e l’assenzio — con la sua tonalità smeraldo e la fama di “droga dell’artista” — divenne simbolo di libertà, eccesso e introspezione.
L’epidemia di phylloxera, l’insetto che distrusse i vigneti francesi negli anni 1870, rese il vino raro e costoso. L’assenzio, a base di artemisia, anice e finocchio, divenne l’alternativa economica e alla moda. Nacque così l’heure verte (“l’ora verde”), il momento pomeridiano in cui artisti e poeti si ritrovavano nei bistrot per discutere, bere e creare.
Al Club dei Pittori durante le lezioni, workshop e masterclass vengono sempre trattati e indicati riferimenti ad artisti celeri, eccone alcuni scelti appositamente per il loro particolare e personale rapporto con l'assenzio: "la fata verde"
Manet fu il primo a rappresentare il bevitore d’assenzio come soggetto d’arte. L’uomo ritratto è un clochard parigino, un chiffonnier, con una bottiglia accanto.
La scelta fu rivoluzionaria: l’assenzio, simbolo della marginalità urbana, divenne icona della modernità. Il pittore lo trattò con sguardo realistico e compassionevole, anticipando la poetica della vita metropolitana.
Il dipinto suscitò scandalo alla sua prima esposizione a Londra nel 1893. Degas ritrae due figure silenziose, una donna e un uomo, seduti davanti a un bicchiere d’assenzio. Lo spazio vuoto, la luce grigia e i volti distaccati suggeriscono alienazione e noia urbana. Più che una condanna, l’opera è un’osservazione lucida della vita moderna: l’assenzio diventa un segno della solitudine dell’uomo nelle metropoli in rapida trasformazione.
Note tecniche:
Van Gogh, che amava l’assenzio ma non ne fu mai vittima, lo trasformò in metafora di luce e colore. Nella sua tela il bicchiere di liquido verde diventa un punto luminoso in un interno caldo e vibrante: non un simbolo di perdizione, ma di percezione sensoriale. La “fata verde” è per lui una musa cromatica, capace di distorcere la realtà per rivelarne la verità emotiva.
Note tecniche:
Nei locali di Montmartre, Toulouse-Lautrec osserva i volti della notte: ballerine, prostitute, artisti, bevitori.
In questa scena, una donna sola con il suo bicchiere d’assenzio rappresenta la malinconia dietro l’euforia parigina. Il colore verde pallido del liquore si riflette sul viso della protagonista come un’aura spettrale. La bevanda non è più semplice svago, ma simbolo di vulnerabilità e desiderio.
Note tecniche:
Durante il suo “periodo blu”, Picasso riprende il tema dell’assenzio per esplorare l’interiorità umana.
Il volto del suo amico Fernández de Soto emerge dalle ombre, con un bicchiere di assenzio accanto. Il verde e il blu dominano la scena, suggerendo malinconia, introspezione e un senso di vuoto esistenziale. L’assenzio non è più rito sociale: diventa simbolo della solitudine dell’artista moderno.
Nessun liquore è stato così amato, temuto e frainteso come l’assenzio.
Chiamato la fée verte — “la fata verde” — fu visto come musa e maledizione, un elisir capace di risvegliare la creatività e insieme di condurre alla follia.
Alla fine dell’Ottocento, mentre la società borghese francese cercava di reprimere tutto ciò che era trasgressivo, l’assenzio divenne il simbolo stesso della ribellione.
Nei caffè di Montmartre e Montparnasse si diceva che bastasse un bicchiere per “vedere il mondo con occhi nuovi”.
Il rituale stesso del bere era teatrale: l’assenzio veniva versato in un bicchiere, una zolletta di zucchero posata su un cucchiaino traforato, e lentamente disciolta con un filo d’acqua fredda. Il liquido trasparente diventava opalescente, quasi lattiginoso, come se prendesse vita. Era un piccolo incantesimo da tavolo — una liturgia estetica che affascinava pittori e poeti. Ma dietro l’aura mistica si nascondeva anche la paura.
A partire dal 1890, la stampa moralista francese lanciò una campagna contro “il demone verde”, accusandolo di causare allucinazioni, epilessia e crimini violenti. Nel 1905, il caso più celebre: un contadino svizzero, Jean Lanfray, uccise la sua famiglia dopo una giornata di ubriachezza.
Nonostante avesse bevuto una quantità enorme di vino e brandy, la colpa fu data all’assenzio. Il “caso Lanfray” divenne il simbolo del presunto male della bevanda, e condusse, nel 1915, al suo divieto in Francia, poi in gran parte d’Europa.
In realtà, la “follia da assenzio” era in gran parte una costruzione mediatica. Gli studi moderni hanno dimostrato che la quantità di tujone (la sostanza estratta dall’artemisia) era troppo bassa per causare allucinazioni. I sintomi attribuiti all’assenzio erano dovuti piuttosto all’alcol in sé o a miscele economiche adulterate.
Eppure, la cattiva reputazione dell'assenzio: "la fata verde" - servì solo a rafforzarne il mito.
Per i bohémien, l’assenzio era l’antitesi della moralità borghese, un simbolo di libertà mentale e sessuale.
Toulouse-Lautrec lo chiamava “la mia compagna di notte”; Verlaine e Rimbaud ne fecero quasi un rito poetico; Picasso lo trasformò in emblema di malinconia e sguardo interiore.
La fée verte diventò musa e maledizione, seduttrice e distruttrice, la donna che ispira ma consuma — proprio come l’arte stessa.
L’assenzio è stato per gli artisti ciò che il vino fu per i poeti antichi: un mezzo per alterare la percezione, per accedere a una realtà più profonda e sensuale. Fu una bevanda democratica, accessibile, simbolo di ribellione e di arte vissuta fuori dagli schemi.
Oggi, la sua rinascita celebra proprio questo spirito: la riscoperta di un passato controverso ma intriso di fascino estetico e culturale. Nei musei, nei bar e nei quadri sopravvive ancora la fée verte, la musa verde che sussurra all’artista di osare, di guardare oltre il reale.